Santa Ana è la nostra città preferita in El Salvador. Non abbiamo dubbi. Sentiamo un legame speciale con la gente qui, con l’architettura, con l’atmosfera che si respira per le strade.
Sarà questo forse che ci fa sentire a nostro agio e oggi decidiamo di recarci nei quartieri più popolari. Per mischiarci coi veri Santanecos. Sappiamo che oggi è giorno di mercato e vogliamo capire se anche lì è possibile pagare con i bitcoin. Non dovete immaginarvi le bancarelle ordinate con i venditori vocianti di casa nostra. In El Salvador sono piuttosto un labirinto di baracche ammassate l’una sull’altra, con merce esposta ovunque. Nelle viette strette la calca è disordinata e gli ambulanti spingono ogni sorta di carrello arrugginito. Persino l’asfalto diventa un’occasione per stendervi un telo e ammassarci della frutta da vendere.
Il contesto generale all’inizio ci intimorisce un po’. Ci facciamo forse un po’ suggestionare dagli abiti sporchi e rattoppati della gente e dalle facce dure. Ma ci facciamo coraggio e dopo esserci addentrati ci rendiamo conto che gli sguardi sono curiosi e le espressioni nei nostri confronti benevole.
Era qui che volevamo essere quando siamo partiti dall’Italia. Tra le cose che ci premeva particolarmente scoprire era se ci sarebbe stato possibile acquistare delle banane da un ambulante popolare pagandole in Bitcoin. Ci rimbocchiamo le maniche e iniziamo a chiedere.
Le reazioni più comuni che riceviamo sono di scherno. La gente ridacchia. Ci fa cenno di no. Ma non ci arrendiamo. E continuiamo a chiedere. Un signore che vende pomodori, dalla faccia particolarmente truce, quando ci sente nominare la criptovaluta si lancia in una serie di improperi contro Bukele. L’associazione è sempre presente, specie nella fascia più modesta della popolazione.
Qui attorno cartelli con la magica B arancione non se ne vede mezzo e iniziamo a dubitare, quando la nostra attenzione viene attratta da una signora particolarmente chiassosa, proprietaria di un banco della frutta. Quando le chiediamo informazioni si mette a ragionare, ci dice di aspettare e sparisce nella folla. Torna dopo pochi minuti e ci dice che sta per arrivare un suo amico che ha un Chivo wallet e che quindi possiamo dedicarci agli affari. Scegliamo delle mele e dell’uva. Dopo poco arriva un signore dai vestiti tutti lerci e bucati, ha uno smartphone antidiluviano in mano con l’applicazione istallata. Non sa assolutamente cosa fare, tanto che ci lancia il cellulare in mano con un’aria da “fate voi”. La signora ci guarda impostare il pagamento con un’espressione persa e poco interessata. Come se noi fossimo dei matti. La notifica dell’avvenuta transazione arriva e ci consegna i sacchetti. Li afferriamo vittoriosi.
Come direbbe Gene Wilder in Frankenstein Junior… “si può fare!”
Al netto del nostro piccolo grande successo non possiamo dire però di avere riscontrato interesse ed entusiasmo. Anzi. Nei bassifondi la vita sembra proseguire immutata, coi sui ritmi e le sue logiche, con o senza Bitcoin. Forse non c’era da aspettarsi nulla di diverso, infondo.
Mentre torniamo verso casa notiamo, al centro di una piazza, un ATM Chivo. Non c’è quasi nessuno e ci facciamo prendere dalla curiosità. Ci avviciniamo e chiediamo informazioni al personale. Era un po’ che volevamo studiarlo più da vicino, per capire quali funzioni offre e per capire se noi, come stranieri, avremmo potuto utilizzarlo. Ci fanno entrare e ci lasciano trafficare.
Ha un’aria poco tecnologica, un po’ anni novanta e una interfaccia grafica terribile. La prima cosa che ti chiede è di inserire un numero di telefono, che può essere salvadoregno o internazionale, sul quale ti verrà inviato un codice da inserire nella macchina per accedere alle funzioni. Serve per verificare l’identità, intuiamo subito. Inserito il codice le opzioni sono due: ricaricare il saldo in BTC e ritirare contante vendendo BTC. Selezioniamo il secondo. Proviamo a vedere se ci da 20$. Scegliamo l’importo e la macchina ci mostra il codice QR. Lo inquadriamo, confermiamo l’invio sul nostro wallet e, con nostra grande sorpresa, Chivo eroga il contante istantaneamente. Senza attendere nemmeno la prima conferma on chain. Un po’ confusi usciamo stringendo in mano la prima banconota da quasi un mese.
Controlliamo il nostro wallet. La transazione è ancora nella mempool. Non è scritta in blockchain. Ora, il fatto è questo. Io uso Blue Wallet che trovo molto comodo per la funzione replace-by-fee (RBF). È una tecnologia che permette di modificare una transazione già inviata al network aumentandone le commissioni in modo che venga scritta il prima possibile in un blocco. Questo sistema però consente anche di sostituire la transazione già inviata con una vuota, di fatto annullandola. Solitamente gli ATM erogano uno scontrino che consente di ritirare il contante solo quando la transazione è finalizzata e scritta nella blockchain. Chivo, pagando immediatamente, si espone quindi ad essere truffato da tutti quei wallet che grazie a RBF possono cancellare le transazioni quando sono ancora in attesa di conferma. Un bug clamoroso. Enorme.
Immaginiamo si dia per scontato il fatto riuscire a risalire all’identità del malfattore attraverso il numero di telefono, ma come abbiamo raccontato all’inizio del nostro diario, noi abbiamo acquistato tre sim card locali in bitcoin con una operazione che aveva il vago sapore di mercato nero e senza fornire a nessuno dei documenti. Se è stato così facile per noi immaginiamo sia un gioco da ragazzi per un locale con cattive intenzioni. Che gli ATM di Chivo abbiano una vulnerabilità così evidente è francamente inspiegabile. Il fatto che la problematica non sia ancora stata risolta parrebbe confermare l’indiscrezione che abbiamo ricevuto secondo cui chi ha fornito le macchine non sia in grado più di aggiornarne il firmware. Ci chiediamo quanti dollari siano stati sottratti allo Stato di El Salvador usando questo metodo.