È giunto il momento di ributtare tutte le nostre cose negli zaini, caricare la Bitcoin Car e lasciarci le limpide acque del lago Coatepeque alle spalle. È stato davvero piacevole passare il Natale qui ma abbiamo ancora molto da esplorare e siamo ansiosi di rimetterci in strada.
Scegliamo di riposizionare il nostro campo base a Santa Ana. La città ci era molto piaciuta e si trova nella posizione perfetta. Esattamente al centro di tutto quello che vogliamo visitare nei prossimi giorni. La verità è che avevamo preso in considerazione anche di stabilirci in alcune cittadine limitrofe, come Chalchuapa e Los Naranjos, ma non abbiamo trovato nessun hotel disposto ad accettare Bitcoin laggiù. Il capoluogo della regione invece sembra senza ombra di dubbio satoshi friendly e già il primo ostello che chiamiamo è ben felice di farci pagare con la valuta del futuro. Anzi, il proprietario ci sorprende quando ci dice di non avere Chivo istallato ma che lui preferisce usare Strike. Una rara posizione la sua, che merita di essere investigata.
Ancora una volta siamo fortunati. Arriviamo a destinazione e l’ostello è splendido. Forse la struttura più bella, accogliente e servita di tutto il nostro viaggio. Sarà un ottimo campo base. Dopo avere espletato le solite formalità ci fermiamo un po’ a parlare col boss. Accetta Bitcoin da ben prima dell’entrata in vigore della legge. Ha iniziato ad usare Strike fin dal principio e lo considera un software decisamente superiore. Quando l’app del governo è stata resa disponibile l’ha provata ma aveva un sacco di problemi e davvero non aveva senso usare quella. Il discorso poi scivola velocemente sulla politica. Non è per niente un fan di Bukele, anzi, teme le sue derive autoritarie e lo considera un ricco viziatello arrogante. Pertanto non si fida del controllo di stato sul wallet e preferisce non averci nulla a che fare. Riconosce l’importanza della legge, ha avuto il merito di dare grande visibilità ad El Salvador, ma è stata implementata troppo velocemente e il popolo non è stato adeguatamente preparato. Tutti elementi che anche noi abbiamo largamente evidenziato. Non possiamo certo dargli torto, quindi.
Prendiamo possesso della nostra stanza e ci organizziamo. Ci è chiaro che la nostra avventura ci ha davvero portati ai limiti del mondo civilizzato quando, come inebetiti, osserviamo per qualche minuto la doccia del bagno lasciar sgorgare acqua calda sui nostri corpi. Una sensazione che non provavamo da settimane. È quasi al tramonto che usciamo per procurarci del cibo.
Troviamo una pizzeria aperta non molto distante dall’ostello, entriamo a chiedere e ci dicono di accettare Bitcoin senza nessun problema. Ci sediamo e ordiniamo due versioni molto salvadoregne di pizze che, secondo la pubblicità del locale, avrebbero dovuto essere tipicamente italiane. Non ci importa granché, siamo affamati ed era la cosa più comoda.
Al momento di pagare però arriva una sorpresa. La cassiera ci dice di non avere con sé l’applicazione ma che possiamo tranquillamente mandare i soldi al numero di telefono che ci fornisce. Con Chivo si può fare. Nel suo essere un database ipercentralizzato e con accurata verifica delle identità degli utenti, ad ogni numero di telefono corrisponde un profilo e quindi basta anche solo inserire quello per poter trasferire denaro. Quando spieghiamo che noi l’app non la possiamo avere perché siamo stranieri e che ci serve un codice QR per forza di cose, scatta il panico. Non hanno idea di cosa noi si stia dicendo e chiamano al cellulare il proprietario. Proviamo a spiegargli come produrre il codice ma non è in grado. Non l’ha praticamente mai utilizzata e per quelle poche transazioni che riceve basta davvero il numero di telefono. Non ha voglia di mettersi a smanettare, non gli interessa e, pur di liberarsi di noi, si scusa e ci offre la cena.
Usciamo storditi dall’esperienza. Passiamo davanti ad una pasticceria e decidiamo di bere un caffè e ordinare un dolce. Chiediamo, come da prassi, se ci lasciano pagare in satoshi e ci dicono di sì indicandoci un codice QR stampato ed incollato di fianco alla cassa. È però il solito codice Chivo per inviare dollari. Noi non ce ne facciamo nulla. Quando glielo spieghiamo non capiscono nemmeno loro bene come possa non funzionare. Ma subito si mettono alla ricerca di uno smartphone con l’app istallata. Sono tutte da aggiornare e quindi occorre registrarsi nuovamente. In una scena tipica dei nostri ultimi giorni inizia la tiritera di pin, codici inviati e carte d’identità scansionate. Nell’attesa il proprietario del negozio ci dice che è ormai rarissimo che qualcuno chieda di pagare con Chivo e che quindi non ha più sentito il bisogno di aprire l’applicazione da settimane.
Ce la facciamo, riusciamo a pagare, consumiamo e torniamo verso il nostro ostello.
Sinceramente gli ultimi giorni sono stati un campanello di allarme. La nostra sensazione è che, finito l’entusiasmo iniziale causato dalla pioggia di bonus da trenta dollari, il grosso della popolazione abbia già messo i pagamenti elettronici nel dimenticatoio. Nessuno di loro ha capito realmente cos’è Bitcoin, come funziona, quali opportunità offre e che presidio di libertà sia. Non hanno ricevuto nessuna educazione, nessuna indicazione e sono praticamente tutti bellamente tornati al contante dopo la bonanza iniziale. Così rischia davvero di essere un’occasione sprecata. Non è sufficiente distribuire un’applicazione e regalare dei soldi per far attecchire un’idea tanto rivoluzionaria. Occorre spiegarne il senso. Rendere la popolazione partecipe del disegno politico che sta alla base della sua adozione. Qualunque esso sia.
Non capiamo bene a che gioco stia giocando Bukele e vorremmo tanto poterglielo chiedere.