Raccontare, seppure brevemente, la storia di El Salvador è importante per capire com’è possibile che un Paese florido, dalla terra estremamente fertile e dalla grande bellezza paesaggistica, possa trovarsi ad essere uno dei più poveri del mondo. Nulla avviene per caso e ogni azione dell’uomo ha delle conseguenze. Quella in cui ci troviamo è un piccolo fazzoletto di terra che da cinque secoli trasuda letteralmente sangue.
I Conquistadores spagnoli arrivano nel 1524, guidati da Pedro de Alvarado, allora la zona si chiamava Regno di Cuzaclan e ospitava popoli antichissimi, che noi chiamiamo precolombiani, come se non vi fosse nemmeno dignità in ciò che esisteva prima dell’arrivo degli Europei. E invece avevano cultura, storia, religioni, tradizioni e anche dei nomi: erano i Maya, i Pipil, i Lenca e gli Xinca.
Non fu facile per le truppe di Alvarado. Ma un connubio di malattie letali e superiorità bellica, nel giro di due anni, asservì i pochi superstiti al sistematico sterminio dei nativi. Gli Spagnoli cercavano l’oro, ma in quest’area non ce n’era granché. Trovarono però una terra fertilissima che per secoli dominarono come parte del regno di Nuova Spagna.
La società che costruirono qui si può descrivere solamente come la forma più violenta di feudalesimo che il mondo abbia mai visto. Poche famiglie controllavano enormi latifondi terrieri. Il resto della popolazione erano contadini e braccianti. Più simili agli schiavi. Qui si coltivava tabacco, cacao, caffè, indaco, cotone, canna da zucchero. Tutte merci preziosissime sui mercati occidentali. Ai locali però non restava nulla. Né prodotti né terra.
Quando Napoleone conquistò la Spagna all’inizio dell’800 i moti di indipendenza infiammarono tutto il Centro America. Ma si sa come vanno a finire le vicende umane. Che tutto cambi affinché nulla cambi. Nel nuovo stato indipendente di El Salvador c’era una parvenza di democrazia, ma la politica e la ricchezza erano tutte in mano a “las catorce familias”, le quattordici famiglie come le chiamano gli storici locali, tutte discendenze dirette dei conquistadores più in vista arrivati secoli prima. Enormi proprietari terrieri, troppo potenti per essere scalzati, troppo ricchi. Per i due secoli successivi furono loro a dettar legge. Facendosi eleggere Presidenti, promulgando leggi a loro favore, reprimendo nel sangue ogni forma di protesta.
È in questo clima generale che nel 1979 i due Colonnelli Ramos e Avendano prendono il potere grazie ad un colpo di Stato militare, sovvenzionato economicamente dagli Stati Uniti. Non che gli Americani non appoggiassero da decenni ogni corrotto governo precedente. Hanno sempre considerato questa parte del mondo il loro parco giochi e ci hanno sempre fatto ottimi affari. Ma negli anni 70 il vecchio Presidente Romero non sembrava più essere in grado di controllare il dissenso crescente e Washington temeva una rivoluzione socialista, come da poco accaduto nel vicino Nicaragua. E quindi meglio finanziare i giovani, più violenti e più fascisti dittatori militari.
Ma il popolo non ci sta e nel giro di pochi mesi gruppi di ribelli si organizzano in tutto il Paese. Finiscono con il coalizzarsi in un unico grande movimento reazionario socialista: il Fronte per la Liberazione Nazionale Farabundo Marti, che sceglie come proprio quartiere generale gli altopiani a nord della regione del Morazán, nel profondo della giungla più inestricabile.
È qui che ci rechiamo oggi. A nord dell’antico villaggio di Perequin. Qui i campi di addestramento, i rifugi tattici, i centri logistici dei ribelli sono stati conservati intatti, musealizzati. Fa una certa impressione addentrarsi nella vegetazione fitta, vedere i buchi scavati nella terra dove i miliziani vivevano, i ponti di legno e corda tirati per guadare fiumi e strapiombi. Il tempo è incerto, fa caldo ma a tratti siamo investiti da una pioggia intensa. I mosquitos ci divorano vivi. Scopriamo le storie di questi uomini, uniti per liberare le loro famiglie dall’oppressione. Vediamo i resti delle bombe americane, sganciate a caso per tentare di reprimere la guerriglia, camminiamo nei crateri lasciati dalle esplosioni.
Già perché nonostante la supremazia economica ed i migliori armamenti, l’esercito dei due dittatori non riesce a venirne a capo. L’FMLN ha una conoscenza perfetta del territorio, il supporto della popolazione, si nasconde nelle viscere della terra e attacca di notte, con azioni lampo. Dal profondo della giungla utilizza le radio libere per aizzare la popolazione e invitare i militari a disertare. Sembrano inarrestabili.
È per questo motivo che, il 10 dicembre del 1981, il Battaglione Atlatcl, appena uscito da una scuola di addestramento statunitense, armato con le migliori armi americane, educato alle azioni anti-guerriglia dai migliori addestratori a stelle e strisce, entra nel piccolo villaggio contadino di El Mozote. Lo trovano stracolmo di gente perché la popolazione sta convergendo lì da tutti i paesi vicini, devastati dai bombardamenti a tappeto. Quella sembra essere una zona tranquilla.
Nonostante il villaggio fosse noto per la sua neutralità, gli abitanti erano molto cattolici e si sono sempre rifiutati di fornire viveri e supporto ai ribelli, rinchiudono tutta la popolazione nelle case, nella chiesa e nella piccola scuola per l’infanzia adiacente. Il primo giorno torturano e interrogano gli uomini. Verso sera iniziano a ucciderli. Il secondo giorno radunano nella piazza le donne. Le violentano e le fucilano. Il terzo giorno sgozzano i bambini, anche di pochi mesi, e li impiccano agli alberi della scuola.
Il massacro di El Mozote è il più grosso eccidio nella storia recente del Centro e Sud America.
Visitiamo il sacrario sotto una pioggia battente. In silenzio. Mentre una guida anziana ci racconta quelle ore di terrore. Nella fossa comune sono ammassati 800 cadaveri, irriconoscibili, ma più di mille persone sono sparite in quei tre giorni. Proviamo a leggere i loro nomi sulle targhe commemorative, uno per uno, ma sono troppi. Coi nomi degli oltre 140 bambini nemmeno ci proviamo.
La guerra civile in El Salvador durerà tredici anni. Sono molti gli episodi che avremmo potuto raccontarvi, ma abbiamo scelto quello più rappresentativo. Di questo parliamo quando vi diciamo che noi siamo dei privilegiati. Che il nostro benessere e le nostre libertà sono frutto del caso. Immeritate.
Mentre ci dirigiamo verso La Union siamo di poche parole. Non possiamo non pensare come dietro a queste storie ci sia sempre il potere, il denaro e gli interessi economici di chi lo controlla. La nostra speranza è che introdurre in Paesi come El Salvador una moneta digitale, senza confini e senza padroni, capace di ridistribuire la ricchezza partendo dal basso, fondata su logiche diverse, dall’emissione controllata e capace di marginalizzare l’uomo nella sua governace e nella sua gestione, possa davvero essere un’opportunità irripetibile per creare una società più equa e più giusta.
Ma forse è solo un’illusione perché non sapremo essere degni nemmeno di Bitcoin.