Siamo nella parte più meridionale di El Salvador, quella più vicina all’equatore quindi e, sarà forse una nostra impressione, ma si sente. Oggi fa un caldo torrido e non tira una bava di vento. Ci svegliamo presto per affrontare la solita colazione del campione salvadoregno. Proteine a profusione. Abbiamo deciso di concederci un piccolo road trip. Dirigiamo verso la Baia de la Union, fino all’istmo del Golfo di Fonseca, per poi costeggiare il mare destinazione El Cuco. Una delle spiagge più belle di tutto El Salvador, ci dicono, tra le mete preferite di chi vive in questa zona.
I paesaggi che ci circondano sono davvero affascinanti. Ci troviamo in un’area poco popolata. Gli agglomerati urbani che attraversiamo percorrendo la carretera sono pochissimi e spesso si limitano ad uno sparuto gruppo di case malconce, con le immancabili gang di galline che razzolano in libertà. La campagna è assolata, il manto erboso è secco ed ingiallito ma la vegetazione è abbondante. Ovunque grandi alberi dalla folta chioma verde creano un bel contrasto cromatico. Sullo sfondo onnipresenti montagne nere, vulcaniche, il sipario tipico di El Salvador. Più ci avviciniamo all’oceano più però il paesaggio inizia a cambiare. A diventare quello che tipicamente ti aspetteresti dai tropici. Palme, datteri, banani. Un sottobosco densissimo di piante a noi totalmente sconosciute. È una piccola nazione questa, ma ti sorprende quanto riesca a cambiare volto repentinamente, nel giro di qualche decina di chilometri.
Finalmente arriviamo a destinazione. El Cuco è una spiaggia immensa. Ricorda quelle della California. Più di cinque chilometri di sabbia finissima. È piuttosto affollata. Si trova in un punto più riparato dalle fortissime correnti del Pacifico e per questo motivo le onde sono molto meno imperiose delle spiagge più a nord, come El Zonte. Qui non ci sono surfisti, ma famiglie e normalissimi bagnanti. Lungo la riva è un susseguirsi costante di hotel, ristoranti, piccoli bar. Tutti con l’immancabile tetto di paglia e con quell’aria un po’ arrangiata. Tipica di queste parti.
Ci sdraiamo al sole qualche ora. C’è tanto spazio e il viavai di ambulanti è costante. Facciamo un test con qualcuno di loro chiedendo se hanno il Chivo e se si può acquistare la loro merce in Bitcoin. Ci guardano come fossimo matti e si allontanano ridacchiando. Guardandoci attorno ci rendiamo conto che qui è totalmente diverso dalle spiagge che abbiamo visto fino ad ora in El Salvador. Siamo palesemente gli unici stranieri. Si intuisce anche dagli sguardi della gente che ci guarda con curiosità, come se le nostre pelli bianche fossero roba da marziani.
Sdraiati sui teli ci prendiamo qualche ora di ozio. Si sta bene, la spiaggia è ventilata, l’acqua è fresca e il rumore delle onde è rilassante. Presto però ci viene sete. È arrivato il momento di procurarsi delle birre ghiacciate. Ci lanciamo degli sguardi tenaci. Sappiamo che qui dovremo sudarcele.
Entriamo nel primo locale alle nostre spalle. Un grande quadrato dal tetto di foglie di palma intrecciate, con musica, tavoli e dozzine di amache appese. Ci avviciniamo. Dietro il bancone c’è un ragazzo, avrà circa sedici anni. Chiediamo se accettano Bitcoin ma la risposta è ovviamente negativa. Facciamo per andarcene quando una signora si alza dall’amaca su cui stava spaparanzata e ci viene incontro. Da come gesticola al ragazzo è la padrona del bar e sicuramente sua madre. Ha sentito la nostra richiesta e ci tiene a farci sapere che in tutta la spiaggia nessuno li accetta ad eccezione di un piccolo negozio. Si sbraccia per indicarcelo. Ci tiene proprio a farci sapere che c’è un matto in paese che quella diavoleria se la prende. Sbraita al ragazzino di accompagnarci e lui esegue.
Ci incamminiamo per le strade sterrate del villaggio, al seguito della nostra guida. Attorno a noi il solito conglomerato di case-baracche agghindate alla bell’e meglio. Il regno del fai-da-te edilizio. Mi affascina sempre come la creatività umana, alla bisogna, sappia ingegnarsi. Si avvicina un altro ragazzino, è amico della nostra guida. Ci chiede dove andiamo e quell’altro gli risponde che noi abbiamo solo Bitcoin. Ride e ci accompagna anche lui. Ormai siamo una piccola processione. La gente ci guarda divertita. Arriviamo al negozio. Più un garage in realtà, con all’interno qualche tavolo di plastica, dei frigoriferi rabberciati e una piastra che cucina tacos e burritos. Appeso all’ingresso un grande banner: acceptamos Bitcoin. Con nostra grande sorpresa il proprietario non è un ragazzetto un po’ hi-tech, anzi. È un arzillo vecchiotto. Dal pancione prominente e dalla carnagione chiara. Compriamo due birre e dell’acqua. Gli chiediamo come mai lui sia l’unico che ha colto l’opportunità dei pagamenti digitali. Ci dice che qui la gente è dura e che c’è solo un altro esercizio oltre al suo in tutto il villaggio. Una pizzeria poco distante da lì, dall’altra parte della strada.
Ringraziamo la nostra guida e ci rinfreschiamo con le nostre birre. Guardandoci attorno ci rendiamo conto di quanto lavoro ci sia ancora da fare in El Salvador. È una società saldamente ancorata al contante che non sente il bisogno di sostituirlo. Dove arrivano anche marginalmente turisti stranieri, con le loro diavolerie elettroniche, lo stimolo è non perdere clienti. Competere con i concorrenti. Ma dove si sta tra gente di El Salvador, l’oggetto del desiderio è qualche banconota yankee lercia e sgualcita. Concetti come inflazione, emissione incontrollata, riserva, risparmio, sovranità economica, libertà finanziaria, sono lontani anni luce. Probabilmente considerati sofisticherie da primo mondo. Qui siamo davvero in un’altra dimensione, in una umanità parallela e ciò che conta è la certezza della fisicità della banconota. Da stropicciare in tasca o nel reggiseno, senza dare troppo nell’occhio.
L’altra cosa altrettanto certa, lo sappiamo bene, è che stasera la cena saranno o tacos o pizza.