Ieri sera siamo giunti a Santa Ana piuttosto tardi e decisamente provati da una lunga giornata. Impensabile, fatto check in nel nostro ostello, mettersi a lavorare. Abbiamo quindi deciso di svegliarci presto stamattina e, dopo l’immancabile colazione tradizionale salvadoregna a base di uova strapazzate, pomodori, purea di fagioli, formaggio e banana fritta, di dedicare la mattinata intera a scrivere, lavorare e metterci a pari con quanto lasciato in sospeso.
È già pomeriggio quando finalmente ci dedichiamo all’esplorazione della città.
Santa Ana è stata a lungo la città più ricca di tutto El Salvador, soprattutto nella prima metà del novecento, durante la cosiddetta “età dell’oro del caffè”. Ancora oggi la gran parte della produzione dei preziosi chicchi avviene in quest’area, ma all’epoca enormi latifondi e tecnologie all’avanguardia facevano della città il fiore all’occhiello del Paese. Le architetture del centro ancora conservano le vestigia della grandezza di quel periodo. La città è bellissima e si respira un’atmosfera totalmente diversa da San Salvador. Le case sono tutte basse, a misura d’uomo, dall’elegante stile coloniale. I negozi si susseguono uno dopo l’altro sfoggiando un caleidoscopio di colori accecante. Le strade sono affollate di gente rumorosa e sorridente. Ci ricorda tanto Santiago de Cuba o alcune delle antiche cittadine di fondazione spagnola a sud del Messico: ce ne innamoriamo subito.
Siamo affamati e quindi non vediamo l’ora di iniziare con il nostro gioco preferito. Quello in cui entriamo in ogni buco che incontriamo sul nostro percorso a chiedere se qualche anima pia è disposta a farci da mangiare ed accettare Bitcoin. Ormai siamo abituati alla litania e abbiamo scoperto avere dei risvolti positivi. È il metodo perfetto per scoprire luoghi sconosciuti. Ci infiliamo in ogni vietta che ci ispira e siamo curiosi di capire se Bitcoin è arrivato anche qui. Ovunque posiamo lo sguardo è tutto un guazzabuglio di mercati popolari, venditori ambulanti, negozi di ogni tipo, capitiamo persino davanti ad alcuni locali dalle insegne un po’ hard, dove simpatiche professioniste del sesso ci ammiccano lascive. Rifiutiamo l’esperienza ringraziando sorridenti.
Ci rendiamo subito conto di avere buone possibilità di procacciarci del cibo. Il logo di Bitcoin fa sorprendentemente capolino qua e là. Non dovunque come sulla Beach. Ma è ben presente. Persino alcune sgarrupate bancarelle di robivecchi se ne fregiano. Ed infatti quando entriamo anche nei ristorantini più popolari a chiedere se ci vogliono come clienti, le reazioni sono di sorpresa, ma ci dicono di sì. Come a San Salvador anche qui il proprietario ha un Chivo in tasca. La transazione si potrebbe fare ma il problema è un altro. Abbiamo fatto tardi e quasi tutti hanno finito il cibo. Poco male. Ci rimettiamo alla caccia.
Dopo poco troviamo una papuseria carinissima. La cuoca è di una gentilezza disarmante. Chiede alla proprietaria che ha l’app sulla smartphone, accende il gas sotto la piastra e ci fa accomodare. Bingo. Si mangia. Ci sediamo in un cortile pittoresco, ordiniamo due birre. L’atmosfera è rilassata, siamo gli unici clienti, la musica latina ad alto volume è onnipresente in città. Ci sentiamo a casa.
Con le pance piene ci apprestiamo a tornare verso l’ostello. Abbiamo ancora del lavoro da sbrigare e quindi decidiamo di fermarci in un supermercato a comprare qualcosa per non dover uscire a cena. Memori dell’ultima esperienza, quella in cui abbiamo paralizzato una cassa, facciamo la danza propiziatoria al wallet Chivo e incrociamo le dita.
Il negozio è affollato, riempiamo il carrello e ci mettiamo in coda. Arriva il momento di pagare: sudori freddi. Stavolta la cassiera ha in dotazione un sistema ancora diverso. Se al super di San Salvador avevano un vero e proprio POS brandizzato Chivo, qui si digita direttamente al computer, in quella che sembra un’interfaccia desktop. Dopo un po’ di clic di mouse la ragazza gira il monitor e mi mostra il codice QR del pagamento in dollari. No. Le spiego che deve selezionare Bitcoin. Non capisce. La aiuto col terminale. Dobbiamo cancellare l’operazione e ricominciare dal principio. Dal menu iniziale le faccio selezionare Bitcoin ed (incredibile!) l’opzione Lightning è ben in vista. Ci clicchiamo sopra, sul monitor compare il nuovo codice. Esultiamo. Ce l’abbiamo fatta! Manco per le palle. Sul mio wallet la transazione viene confermata ma lato supermercato non succede nulla. Non da cenni di vita. Nel giro di pochi minuti ci sono cinque inservienti attorno a noi e il responsabile del punto vendita. Alcuni a smanettare altri a guardare e commentare. Ci giriamo per scusarci con la enorme coda che si è formata dietro le nostre spalle. Abbiamo bloccato un’altra cassa. Ancora una volta tutti ridacchiano e ci sorridono. Viva El Salvador.
Non c’è niente da fare. Chivo merchant non riesce proprio a funzionare coi wallet esterni. La transazione non risulta e il responsabile ci chiede gentilmente di aspettare una decina di minuti. Usciamo a fumare un sigaretta. Ormai ci ridiamo su. Il sole sta tramontando sulla bella città di Santa Ana e la luce rossastra le da un tocco ancora più affascinante. Rientriamo. Ci viene detto che la transazione, a loro, proprio non risulta. Ci chiede di lasciargli il numero e ci dice che ci avrebbe chiamati domani per avere il rimborso qualora la cosa fosse confermata. Il brutto è che dobbiamo andarcene senza la spesa. Lì dentro c’era la nostra cena e questo può significare una cosa soltanto: stasera si digiuna.
Non ci importa molto e torniamo all’ostello ridendo sereni. Ci siamo abituati ormai alla follia in cui ci siamo imbarcati. E se fosse sempre comodo e facile che avventura sarebbe?