Iniziamo una nuova giornata determinati ad approfondire ulteriormente le falle del wallet Chivo e la sua reale adozione presso la popolazione locale.
Le strade di San Salvador sono sempre chiassose e piene di vita. Presto ci imbattiamo in un grosso supermercato col logo Bitcoin ben in vista sulle vetrine. Decidiamo di tentare la sorte. Sappiamo che i grossi negozi non usano, com’è facile intuire, l’applicazione per lo smartphone, ma un dispositivo dedicato. Una specie di POS, dotato di display touch screen. Forse nella grande distribuzione hanno educato le cassiere ed i commessi ad utilizzarlo a dovere e a saper impostare una transazione Lightning. Facciamo scorta di cibo, onde evitare di restare a digiuno nei prossimi giorni, qualora noi non si riesca a trovare un ristorante che accetti bitcoin. Ci mettiamo in fila, il supermercato è affollato. Ci sono delle casse specifiche abilitate a ricevere pagamenti con la criptovaluta, diverse per la verità, più della metà. Sembra promettente. Al momento di pagare però la cassiera ci mostra il solito codice QR on chain. Quando provo a spiegarle che dovrebbe selezionare un pagamento Lightning perché è più veloce ed economico mi guarda come se le stessi parlando in Klingon.
Non c’è nulla da fare. Ci tocca pagare on chain. Nel momento in cui la giovane si rende conto che la transazione non è istantanea come usando un wallet Chivo va nel panico e chiama un superiore. La cassa deve chiudere, in attesa che la nostra transazione venga confermata.
Dieci lunghissimi minuti. Provo a spiegare anche all’altro addetto che non stanno usando il wallet correttamente, ma non hanno davvero idea di cosa io stia dicendo. Gli altri clienti in attesa vengono smistati verso le altre casse. Ci sorridono e questo depone in loro favore. A Milano ci saremmo presi una caterva di insulti. Chissà che cosa pensano di noi.
Tornati in strada la frustrazione comincia a farsi sentire: un mese e mezzo di pagamenti on chain potrebbero essere difficili da gestire. Decidiamo di provare dove sappiamo che le transazioni Lightning sono state implementate a dovere. Sulla strada ci imbattiamo in un McDonald’s, l’occasione è ghiotta e decidiamo di provare. Entriamo e chiediamo ad una dipendente che, molto gentilmente, ci spiega che alle casse normali c’è il solito Chivo ma che in quelle automatiche c’è un sistema diverso, proprietario. Ci avviciniamo. Il display fa bella mostra della B dorata di Bitcoin. Inseriamo il nostro ordine, selezioniamo il metodo di pagamento, la macchina ci mostra il codice QR e bang: lightning fast. Esattamente come dovrebbe essere.
Quanta ironia. La prima transazione Lightning che riusciamo a finalizzare nel Paese dove Bitcoin si propone di essere riscatto sociale va verso il wallet di Ronald McDonald, il simbolo globale del capitalismo e dell’imperialismo economico americano.
Ci sediamo al tavolo a consumare e ci rendiamo conto che l’atmosfera è diversa, qualcosa non quadra. Non ci mettiamo molto a capire che cosa. La gente intorno a noi indossa scarpe di marca, polo e camicie stirate, fa bella mostra di grossi orologi e le ragazze sono intente a farsi dei selfie sui loro iPhone smaglianti. Il Mac a El Salvador è roba per ricchi, ed infatti i prezzi non sono lontani da quelli europei.
La cosa ci insospettisce e decidiamo quindi di cambiare completamente zona della città. Arrivati nella Capitale avevamo deciso di stabilire il nostro campo base in pieno centro, che è anche la zona più popolare e per certi versi più umile e povera della città. Fatta di vicoli stretti, muri scrostati e case fatiscenti. Ci dirigiamo quindi verso la cosiddetta Zona Rosa, dista oltre tre chilometri dal centro e sappiamo essere l’area dove si concentra il turismo e dove abitano i privilegiati. Lungo il percorso il tipico caos centroamericano, ricco di ambulanti, marciapiedi dissestati e clacson sguaiati, ma più ci avviciniamo alla nostra meta più l’atmosfera cambia. Le case diventano ville moderne e sontuose, circondate da alti muri sormontati da filo spinato e guardate a vista da personale di sicurezza armato. La Zona Rosa è una San Salvador diversa. Quasi ordinata. Americaneggiante.
Abbiamo camminato a lungo e siamo assetati. Scorgiamo un bel locale, moderno e dall’atmosfera festosa. Chiediamo se accettano Bitcoin e ci fanno accomodare. Ordiniamo due birre ghiacciate. Ce le siamo meritate. Al momento di pagare ci tremano i polsi. Il cassiere armeggia per qualche minuto con un tablet estratto per l’occasione e ancora inscatolato. I pagamenti in criptovaluta non devono andare per la maggiore nemmeno qui, ma dopo poco ci mostra un codice QR generato da una applicazione diversa da Chivo, è BtcPay, la riconosciamo a prima vista. La transazione viene confermata istantaneamente. Tra i privilegiati di El Salvador Bitcoin è il Lightning Network. Esattamente come dovrebbe essere.
Mentre ordiniamo altre due birre, felici di poterle pagare istantaneamente, la mia mente corre a Jack Mallers in lacrime sul palco della Bitcoin Conference di Miami, mentre annunciava al mondo di avere lavorato duro per affrancare il popolo salvadoregno dalla povertà grazie alla tecnologia di Strike. È davvero ciò che sta accadendo?
Sulla strada del rientro incrociamo un passante. La sua maglietta mostra un grande logo di Bitcoin con la scritta “El Salvador Bitcentenario”. Lo fermiamo, gli scattiamo delle foto e lui ci sorride felice al grido di “viva Bitcoin”.
Per il momento l’interazione tra l’invenzione di Satoshi Nakamoto ed il primo Paese ad averla voluta dichiarare valuta a corso legale per noi resta un rebus. La buona notizia è che abbiamo ancora davanti a noi molto tempo per tentare di risolverlo.